LA FESTIVITA’ DEL NATALE

approfondimento

NATALE

I bambini ci guardano

Vivere la festa dell’incarnazione

 

di Rolando Rizzo*

 

Nelle famiglie contadine della mia infanzia calabrese, il Natale cominciava il primo di dicembre. Erano molto importanti tutte le feste perché oasi ludiche e di abbondanza nella generale penuria, ma «la» festa era il Natale. Dicembre infatti veniva chiamato da molti «il mese di Natale». Nella piazza più grande del paese, arrivava puntuale la riffa. Una sorta di tempietto mobile bianco che, molto alla lontana, ricordava il duomo di Pisa. Al pomeriggio si apriva in uno sfolgorio di bambole colorate e un motorino al centro che rappresentava la vincita massima. Arrivava anche il circo. Un capannone arcobaleno che nei manifesti e sui tendoni prometteva stuoli di clown, di ballerine bellissime e acrobati, poi leoni, tigri, elefanti, ma durante lo spettacolo di ballerine se ne vedeva soltanto una coppia tuttofare, di clown un paio che sapevano soprattutto inciampare e di animali esotici c’erano una scimmia e sei cani ammaestrati alla buona che abbaiavano contendendosi palloncini colorati in quella che dovevasi immaginare come una partita di calcio tra amici dell’uomo.

 

I sapori della festa

Il Comune allestiva luminarie nelle strade principali e ogni rione aveva il suo presepe nelle chiese. Nella piazzetta, sul muro davanti alla fontana, si intrecciavano frasche di corbezzoli da cui pendeva qualche arancia e qualche mandarino. Anche nelle case primeggiavano, negli angoli, i rami di corbezzoli carichi di frutti rossi come le fragole ma insipidi come le zucche.

I vicoli odoravano di fritto e accoglievano gli zampognari che scendevano dalla montagna. Anche le famiglie povere non rinunciavano ad avere sulla tavola tutto il mese almeno i scorateddi, sottili strisce di pasta finemente arrotolate, intrecciate a forma di otto, poi fritte e cosparse di zucchero o miele. Migliori erano i crustuliddi, grossi gnocchi fritti allo stesso modo ma il cui impasto prevedeva vino o marsala e uova e che poi venivano strascicati nel miele o nel mosto cotto.

Via via che il 25 dicembre si avvicinava, la via e la piazza dello struscio erano sempre più gremite di gente che passeggiava; famiglie intere e bambini vocianti che collaudavano i primi regali: yo-yo, trottole di legno, raganelle…

L’apice della festa non era il 25 dicembre, ma la vigilia. Erano d’obbligo le pietanze della tradizione, tra le quali primeggiava il baccalà. A mezzanotte tutte le chiese erano piene.

Gli adulti vivevano la festa con i loro drammi e le poche gioie, i bambini però, laddove non c’erano ubriacature e violenze, erano felici.

 

«Contra Natale»

Il mio Natale era invece assai triste. Mio padre aveva aderito alla comunità di fede che sarà per sempre e con convinzione la mia. La mia chiesa di origine era stata visitata per molti anni da un dirigente dell’opera che rappresentava la corrente di pensiero «contra Natale». Purtroppo quella «pro Natale» aveva esponenti a nord di Roma. Ho conosciuto pastori pro Natale e contro. Erano entrambi appassionati pastori del gregge ma, sarà un caso, i figli dei pro-Natale sono generalmente in chiesa, gli altri quasi sempre no.

Per mio padre, era fedeltà vivere dicembre come tutti i mesi e soprattutto la vigilia e il 25 come tutti i giorni. L’unica festa era il sabato, senza però giocattoli, luminarie, scorateddi e turdiddi che però, a dicembre, se qualcuno ce le regalava, anche se prodotti dell’idolatria le mangiava volentieri anche mio padre.

Dal dicembre del 1958 al 17 settembre del 1972, a Villa Aurora e a Collonges, i miei fine dicembre sono stati sempre allietati da meravigliosi alberi di Natale, allestiti in chiesa, come accadeva nelle chiese dei pionieri avventisti, comprese quelle frequentate da Ellen White, ma mi sono sempre mancati i natali dell’infanzia che non ho mai vissuto.

Ciononostante, quel Natale che ragazzo capitai casualmente nella casa del pastore Caracciolo – un mio padre spirituale tra le figure più consacrate che io abbia mai conosciuto – rimasi sorpreso del bellissimo albero che ornava un angolo dell’abitazione nella quale, novantenne, ancora vive. Memore dei sermoni tuonanti dei «contra Natale» sulla paganità dell’albero, sulla certezza che la data non corrispondesse a quella della nascita, sul silenzio della Scrittura riguardo la necessità della festa, dubitai, anche solo per un momento, sulla sua ortodossia. Ma quando presi possesso, assieme a mia moglie, della prima abitazione completamente mia, l’albero carico di palline colorate non è mai mancato e mia figlia, ogni anno, ha sempre potuto contare e ricontare i regalini a lei destinati, a ricordo del Dono dei doni nato in una stalla.

 

Pro Natale

Tutto ciò non per un capriccio, ma per numerose ragioni che riguardano la sostanza della fede. Infatti:

  1. Quali che siano i significati arcaici dei simboli, ciò che conta è il significato che essi hanno oggi. Nessuno di noi sospetta la paganità di qualcuno che chiama i giorni della settimana lunedì, martedì, mercoledì… anche se, secoli fa, ognuno di quei giorni era dedicato a un dio. Il martedì a Marte, dio della guerra, per esempio. Quale che sia stato ieri, oggi, l’abete è semplicemente simbolo del giorno che il cristianesimo ha scelto per ricordare la nascita di Cristo;
  2. Contrariamente a quello che i più credono, il 25 dicembre non fu scelto per far credere che Cristo fosse nato quel giorno, né per conformarsi ai costumi pagani, ma, al contrario per testimoniare ai pagani che era Cristo, non il sole, l’autentica luce del mondo.1 Proprio così come fanno gli avventisti di certe zone della terra nelle quali vige il culto degli antenati ed è norma compiere riti al cimitero. Gli avventisti ci vanno, non per compiere riti propiziatori, ma per testimoniare con dolcezza che i morti dormono e che l’unica speranza umana è la risurrezione dei morti;
  3. È certamente vero che il Natale per molti è una festa consumistica, assai più simile al carnevale, al servizio dell’attimo fuggente piuttosto che a esaltare la speranza. Ma se dovessimo sottrarci a tutto ciò che è degenerato, dovremmo uscire dal mondo. Che cosa non viene vissuto, sin dai tempi di Cristo, in forme degenerate? Il rapporto uomo-donna forse? La figliolanza, l’amor di patria, il lavoro, il commercio…? Non è forse un carattere della vera conversione vivere tutto alla luce della nuova nascita e alla gloria di Dio? Se per molti il Natale è un carnevale, per tanti cristiani è un ricordare ciò che Cristo è stato nella sua totale incarnazione; per diversi, le feste natalizie sono giornate piene di solidarietà e di testimonianza. In diverse chiese avventiste, i regali sotto l’albero vengono posti per i poveri, secondo il consiglio di Ellen White;
  4. Inoltre, il ritornello secondo il quale il tempo della nascita non è stato rivelato e che non esiste comandamento biblico per questa festa, al di là della buona coscienza di chi usa questi argomenti, esprime una visione della fede assai povera e triste. Quasi che l’uomo debba muoversi solo su prescrizioni e comandamenti. Nella casa del Padre in cui già viviamo, se abbiamo accettato il Signore della vita, possiamo vivere da figli o da schiavi. Da studente, per vari periodi estivi ho lavorato come cameriere, facchino, sguattero. Due estati le ho passate in una villa del ‘400 sulle colline di Fiesole, proprietà di un conte. Tutto ciò che facevo doveva essere conseguenza di un ordine ricevuto. A volte facevo cose insensate, ma dovevo farle. A volte avevo delle idee che potevano migliorare il servizio, ma non ero che un servo e anche semplicemente proporle, indispettiva. Ma il padre del prodigo disse al fratello perfetto che riteneva inopportuna la festa: «Ogni cosa mia è tua!».

 

Le molteplici vie del bene

È il male che bisogna totalmente evitare, come i sensi unici. Nel bene le possibilità sono infinite. Possono nascere dai sentimenti umani, dalla creatività che ci accomuna all’immagine di Dio.

La chiesa nei secoli non doveva disobbedire ai comandamenti di Dio, non era libera di mutarli nella forma e nei contenuti. Era però libera di fare il bene che si presta a infinite varianti, ivi compreso i modi di celebrare l’incarnazione. I quattro evangelisti raccontano ognuno la vicenda Cristo secondo la propria sensibilità. Tre di loro quasi nulla raccontano dell’infanzia di Cristo. Luca invece racconta molte cose. Chi ha sbagliato: i tre o Luca? Nessuno ha sbagliato, perché tutti hanno raccontato porzioni della verità secondo la loro comprensione. Per questo nel canone i vangeli sono quattro. La diversità nel bene è ricchezza.

Celebrare il Natale è un merito, non una colpa del primo cristianesimo. Per la riprova, chiedere ai bambini.

 

1 Tutto ciò è dimostrabile storicamente. Tra gli altri lo ha fatto anche uno tra i più coraggiosi e dotati biblisti-storici protestanti, quell’Oscar Cullmann autore del saggio sulla non biblicità della dottrina dell’immortalità dell’anima. Cfr. L’origine della festa del Natale, Queriniana editrice.

 

*Pastore emerito