Il Nulla e l’Incanto – invito alla lettura

 

Cantante romena canta nel teatro parrocchiale di San Giovanni Evangelisti durante la presentazione de "Il nulla e l'Incanto"

Cantante romena canta nel teatro parrocchiale di San Giovanni Evangelista durante la presentazione de “Il nulla e l’Incanto”

Il Nulla e l’IncantoNimicul si Incantarea di Rolando Rizzo. Invito alla lettura.

Teodora Nicoleta Pascu

Università di Catania

 

 

Dopo avere pubblicato la trilogia narrativa Il Mulino di Colognati (2007), Il Viaggiatore (2009) e il Terzo treno (2011), seguita nel 2014 dalla raccolta di racconti Cieli tamarri, Rolando Rizzo decide di donare al pubblico, nel senso più autentico del termine, un volume questa volta di poesie, Il nulla e l‘incanto, ed è lo stesso Rizzo a svelarci il motivo: “tutte le volte che le ho lette in pubblico ho sempre ricevuto richieste di testi, da persone semplici e da persone colte. Ho visto ogni volta persone commuoversi. Ho ricevuto sempre ringraziamenti sentiti. […] Allora mi son detto che i miei versi,  a prescindere dal loro valore artistico, fanno del bene e sarebbe un peccato farli morire .”  In più, i 24 componimenti inclusi, scritti tra il 1961 e il 2012 e organizzati in ordine ‘tematico’ non strettamente cronologico, sono pubblicati dall’editore Ponte Vecchio con testo romeno a fronte, scelta singolare riconducibile all’esperienza personale dell’autore, di servizio come pastore evangelico per alcuni anni in Romania. Anche questa scelta viene motivata dallo stesso autore: “Scrivo per amore, per dovere civile. L’emigrazione è una ricchezza dolorosa del nostro tempo. Sono un emigrante. Lo sono sempre stato. La mia patria è la valle del Pesco a Rossano Calabro, il mulino sul Colognati, è il mondo contadino degli anni ’50. Sono figlio e nipote di emigranti. […] Amerei tradurre ciò che scrivo in tutte le lingue del mondo. Scelgo come simbolo il Romeno. […] Nella consapevolezza che, al di là delle differenze, rimaniamo razza umana, che abbiamo bisogno di dialogare sempre, razza emigrante tutta e sempre, sino alla terra promessa”.

L’autore ha facilitato dunque il mio compito in occasione della presentazione del volume a Catania, nell’ambito del progetto Dialogo fra le religioni promosso dal Lions Club Mediterraneo, che è quello di un Invito alla lettura, svelando sin dalla prefazione la sua professione di fede poetica: la scrittura come urgenza e dovere civile e l’impronta di un umanesimo cristiano moderno, o forse meglio dire postmoderno. Pur senza volersi addentrare nel complesso argomento dell’umanesimo laico versus l’umanesimo cristiano, sicuramente questo è uno dei tratti significativi e pregnanti della poetica di Rizzo; d’altronde, l’umanesimo è un aspetto che accomuna le chiese cristiane, poiché laddove il Cristianesimo si dimostra come capace di amare e valorizzare l’uomo, si mostra, com’è, un autentico umanesimo. Capace di ascoltare e affrontare vittoriosamente il bisogno dell’umanità del nostro tempo. Perciò, dal punto di vista cattolico, il compito di “andare, con la Chiesa, fiduciosamente verso l’uomo” (Giovanni Paolo II), superando la tentazione di una sdegnosa, ma sostanzialmente triste, rinuncia (di una arroccata rinuncia alla pienezza, che è da proporre a tutti), appare più che mai attuale; e pare richiedere una attenzione quanto più possibile simpatetica verso tutto ciò che di autenticamente umano è emerso ed emerge nella storia dell’uomo, con la consapevolezza che per l’umanesimo cristiano la dignità umana esiste solo se misurata sul paradigma del mistero di Dio.

Occorre sottolineare questo aspetto, poiché esso è caratterizzante, come si accennava sopra, di tutta la poetica di Rolando Rizzo, il quale parla di un “divino meravigliosamente umano”, come degli altri scrittori cristiani, che sebbene attraversati anche loro dai momenti di dubbio e di incertezza durante la ricerca di senso esistenziale, offrono la risposta della speranza insita nella loro fede, nell’essere credenti. Ritornando al volume di cui nel titolo, cercherò di darne una breve lettura critica dal punto di vista letterario, partendo dai nuclei tematici, passando per le fonti di ispirazione, gli aspetti stilistici e linguistici, per arrivare infine ad alcuni cenni critici sulla traduzione romena, parte integrante del testo.

Come rilevato per la produzione narrativa, nella quale la critica ha intravvisto accenti veristi e influenze manzoniane, anche nella produzione lirica si possono individuare due principali filoni tematici: da un lato, il mondo contadino della terra d’infanzia (con una serie di sotto temi: l’epos famigliare, la natura, ecc. ) e la vita quotidiana (eventi di cronaca, fatti quotidiani, ecc. ) e dall’altro lato la spiritualità, la religione (i canti di lode). Chiaramente, spesso i temi si intrecciano, vengono travasati e mescolati, non a caso il volume si apre con la poesia Zu Peppe, Mugnaio e si conclude con il Canto di lode al Creatore e Redentore.

La parola poetica di Rolando Rizzo fiorisce dunque da tutto un sostrato di eventi, storie, figure poetiche, motivi, nati per spontanea germinazione dalla sua realtà esistenziale, a volte sfumando i contorni posti tra mondo fenomenico e quello fantastico. La sua poesia non è, pertanto, un fenomeno a posteriori, più o meno forzato, ma una creazione a sé stante, autonoma, parallela e non subordinata alla narrativa. Si può giungere in tal modo ad affermare che per Rizzo al principio era la poesia; e la poesia era la parola faticosamente fatta sua, e protetta, sino a vederla crescere piena di meraviglia dal mistero dell’io e del mondo, sino a spaziare in un infinito terrestre e celeste insieme, mirando all’origine primigenia dell’essere, con sentimento di partecipazione, in una dimensione di religiosità universale, dal nulla all’incanto. Tanto che, seppure con tono lievemente didascalico, l’autore, nel componimento dedicato Ai libri poetici, ci regala una definizione stupenda della poesia: La poesia è lo spontaneo straboccare / di sentimenti possenti,/ un microscopio del cuore / che scopre il sublime nelle cose trascurate. / Il poeta è un bambino che si meraviglia della vita / che pulsa in ogni filo di erba / un eterno innamorato di ciò che cela ogni respiro. / La poesia rende solenne il dolore / sacro l’amore, insopportabile la violenza / infinito l’attimo, epica la vita qualunque; / dà voce alla sofferenza, agli aneliti, ai sentimenti, / all’anima che pulsa come un cuore /nella foglia e nella stella, / agli attimi segni e pregni di eternità. / Ogni autore sacro è poeta / poiché parla al cuore e all’anima/ con commozione e lacrime / si meraviglia del creato e del divino / così meravigliosamente umano. (p. 76)

Ecco che, mentre la narrativa si  tinge a tratti di lirismo, anche la lirica è spinta a narrare. Il tutto usando una ritmicità vicina a quella delle fiabe, in cui sintagmi del linguaggio medio predominante si intrecciano con alcune parole “poeticissime” , come direbbe Leopardi, realizzando delle catene semantiche spesso complesse nella loro apparente semplicità, o ingenuità.

Rizzo non vuole separare il personale dal poetico, rendendo così quest’ultimo vagamente familiare, accogliente, piacevole, poiché modellato sul suo paesaggio dell’anima, perlomeno per quel lettore che sa ricostruire la mappa dei riferimenti biografici. Particolarmente significative, tra i componimenti in cui viene rievocata l’infanzia e le figure famigliari, appaiono la poesia di apertura del volume, Zu Peppe Il Mugnaio, poi Padre, Quel Natale del 1950 e Tre letti, meriterebbero un’analisi a parte ogniuna, impossibile nello spazio di una recensione. Si può sottolineare, però, che il recupero lirico attraverso il ricordo di frammenti  del passato, recupero che vorrebbe farlo rivivere e durare, è estremamente ben riuscito. Diceva a proposito  Giuseppe Bonaviri, altro grande poeta, che “scrivere è corporalizzare il mondo esterno che si porta dentro nella memoria … La memoria è tutto.” I sentimenti dell’io sono proiettati anche negli oggetti che questi percepisce e focalizza. Ed ecco rivivere i sapori, gli odori , i suoni, i colori di quel mondo, della sua Rossano con i muri di calce bianca, il mulino che profuma di farina, di mirto e di neve, con gli ulivi e gli aranci nel sole d’agosto, con le castagne che portavano l’autunno sotto la cenere, con la voce buona dell’agnello, con i vicoli incantevoli che a Natale odoravano di ragù e di fritti e sfavillavano di presepi; ecco il nonno che racconta la fiaba del re, il padre che racconta i suoi sogni di contadino,  le sue speranze buone, le sue canizie bianche di illusioni, che tramanda la fede; ecco la durezza, la “fame dei bambini che sognavano briciole come i passeri”, quando “l’ultimo tozzo di pane era stato consumato la sera, non restava che un pugno di olive” mentre fuori era nevicato sull’aspro colle … un mondo povero, semplice ma puro, con un richiamo insistente sulla figura del fanciullo, del bambino, contrapposto a quello “di neon di dei bugiardi”.

Ricorrente il tema del distacco e del congedo, il desiderio di ritornare, sviluppato anche in altri componimenti,  per esempio in Se il campanile sulla collina, attraverso il motivo del treno (parola determinate per lo spazio ristretto, inserito nello spazio più ampio, quello del tragitto, che risulta subito alienata dalla aggettivazione “antico e ruginoso” ), del viaggio che diventa simbolicamente il viaggio della vita, in un andamento che mescola il registro letterario e quello medio, colloquiale, con tratti metaforici e ricco di ossimori: Corre il treno / non pare sfiorare stazioni: / e, il tutto angusto / e solo rischiarato dalla vita / che a tratti repentini / illumina l’anima / […] Vorrei vedere, vorrei capire / non ho che intravisto / nella corsa sfuggente in cui sono costretto / così poche rare cose. / Ho visto te, sì viva e vera / ti ho consumata di abbracci / ma non ho saputo né parlarti / né ascoltarti. / […] Ma del treno che ha ripreso per altri la corsa / restano solo vapori che si dissolvono nel sole / e l’ultimo bagliore muore nel nulla? . Ecco la svolta religiosa, l’interrogativo non è una negazione del divino, ma proprio per la forza dell’interrogazione significa il suo recupero, sino a rendere possibile il ritorno alla fede, la grande apertura e il ricominciare del ciclo della vita: Tutto sarebbe assurdo se prima del silenzio / non rintoccasse gioiosa e insperata di primavera / la piccola campana sotto la croce: / dalla chiesetta linda di pietra / sul poggio ricamato di anemoni / sotto le volute fresche di una rondine che torna. (pp.56 – 60)

Lo stesso stile di apparente semplicità, che si affina di poesia in poesia, si ritrova anche nei componimenti di natura religiosa, i quali sono a volte intimistici, raccolti in una dimensione spirituale più interiore ed esistenziale, mentre altre volte sono apertamente moralistici, con finalità etiche e di critica sociale, molto aspra ma alleggerita da toni ironici, per cui mai sopra le righe. La Bibbia, com’è noto, ha influenzato più di qualsiasi altro testo la letteratura occidentale, e questo vale soprattutto per la letteratura italiana. Basterebbe un rapido sguardo agli scrittori di ispirazione cattolica della seconda metà del Novecento, da Pomilio a Parazzoli, da Santucci a Turoldo, da Ulivi a Testori, a Rodolfo Doni, per non dire di scrittori non credenti (Buzzati, Landolfi, Bonaviri, Fallaci) che trattano anche inconsciamente una vasta gamma di elementi religiosi. Rolando Rizzo si colloca in questo filone, con la consapevolezza che, seppure etichettare sia sempre difficile, per necessità “tassonomica” la critica letteraria deve operare classificazioni. I motivi biblici sono elaborati in chiave moderna, attualizzati, innestati persino in materia di esperienze personali, di fatti di cronaca, ecc. per diventare matrice costante, feconda, universalizzante. L’io poetico si muove tra il dolore e l’amore verso la speranza, cerca di capire l’incomprensibile, il mistero della fede, rendendo sempre più complesso il discorso filosofico sulla ‘favola’ della vita e dell’aldilà, i problemi che agitano l’anima del cristiano di oggi e di sempre. Nel componimento Aspettando la Beata Speranza dice Rizzo: Io non so, Signore, che cena sarà: / se ci saranno gli alberi lungo i fiumi, se canteremo con la stessa voce, / se ci sarà la stessa musica, / se i piccoli fanciulli li farai giocare / con te fra candide nubi; / […] Ah! Io non so, Signore, / quali saranno i colori della festa: / ma so che tu / mi hai donato questa beata speranza, tu / che già mi desti / il tuo sangue di giusto sul Golgota / e la meravigliosa strada del bene. (p. 22) Emergono i temi della crisi interiore ed esistenziale, l’incertezza del cristiano che lotta con se stesso, a volte, e con una società ingiusta: cade e si rialza, si immola per il prossimo in un mondo scristianizzato, capisce la solitudine postmoderna del vivere di oggi. E’ greve il mio tempo. / E’ greve come l’altro questo millennio nuovo, ma Cristo è sempre presente nell’evoluzione dell’umanità, nella storia e fra gli uomini, si incarna e vive nell’uomo di ogni tempo, di ogni strato sociale, di ogni età, lungi dal mio tempo, / nel mio tempo / e dovunque , poiché senza di lui, dice Rizzo, le scomode capanne che vedono / il tuo ultimo Sguardo / diverranno comodi grattacieli / ma gli uomini saranno infelici come quelli di ora.  ( I giovani, Messia! – p. 30;  Muori, Galileo! – p. 32, Luca 23:23 – p. 44). La crisi della fede non è però distruzione, non deve esserlo, invece è esperienza costruttiva di più ampie e solide conoscenze, una spinta verso una nuova risurrezione e verso una nuova ricerca di Cristo. Come nota un personaggio di Rodolfo Doni: “Forse , anche questa crisi religiosa che viviamo, si dice, era utile che venisse. E forse sorgerà anche da questo mezzo cristiano che sono un cristiano nuovo”. Da qui ne deriva un forte impegno civile e una esplicita critica sociale: accade alla mia / Calabria oggi, terra disdegnata da Dio: / alla Sicilia, alla Puglia, alla Campania … / Da troppo tempo / spremute e umiliate da assassini e predoni. / […]  Grazie Signore, / per Mosè, per Bonhoeffer / per Ambrosoli / per don Puglisi, Falcone, Borsellino, / per don Peppino Diana / che prima del suo assassinio / pronunciò le parole della nostra vocazione: / verso qualunque mafia: / “Per amore del mio popolo non tacerò” ! (Canto di lode al signore, Dio di Gesù Cristo – p. 136 ). Come si può osservare, gli interessi morali sono sempre dichiarati, scoperti, i versi vibrano di sincerità e passione, impregnati del sentimento della pietas per gli oppressi, per gli ultimi degli ultimi. La storia buia e crudele non è disperata perché agitata da una luminosa Presenza.

Rizzo dedica una delle poesie più belle della raccolta alla Romania, Mi ha raccontato un fratello rumeno, in cui fa un ritratto a tutto tondo della Romania e della sua gente, della sua natura, della sua storia, delle tradizioni, della cultura: Sapessi com’è bello il mio paese! / Sogno dei pittori. / La mia Romania. / Siamo figli dei Traci e dei Romani, entrambi guerrieri / siamo razza umana che ha assaporato / il miele e il fiele della vita / che ha incontrato mille rivoluzioni  e guerre / che ha sognato: / la giustizia, la libertà, la pace, l’unità, la democrazia / senza mai trovarle. / […] Come tutti i popoli della terra. / Siamo umani e pellegrini / a cercare ciò che sempre diviene miraggio. / Ma il nostro Signore è vero / e la sua croce guarda la terra / dall’alto dei nostri monti e dal suo cielo / e ha pietà di noi, / ci costringe con il suo amore / e ci fa pellegrini della speranza. (pp. 100 – 104)

Infine, alcune considerazioni sulla versione romena del testo, premettendo che la traduzione letteraria, e specialmente dei testi poetici, è sempre un processo difficilissimo. Nel complesso, la versione romena è abbastanza convincente, eccetto alcune osservazioni di carattere prettamente tecnico, ma è un dato di fatto che gli studiosi concordano ormai nell’affermare che non esiste una versione definitiva di un testo tradotto. I problemi traduttivi sono stati risolti con un approccio che rivela la conoscenza del macro testo dell’autore e della sua biografia, indispensabili in quanto la traduzione tratta categorie culturo-specifiche, cioè in rapporto indissolubile con la cultura all’interno della quale è incluso il testo letterario. A livello linguistico, l’atto ermeneutico credo sia stato facilitato dal rapporto diretto con l’autore, e così pure il conseguente atto decisionale, cioè la scelta fra diverse ipotesi traduttive. Dalla mia esperienza come traduttrice letteraria, ritengo, in generale, che una traduzione debba svelare non l’opera ma un cammino verso l’opera che possa guidare il lettore straniero in un mondo a lui sconosciuto, dalla prospettiva dello scrittore di partenza. E’ un avvicinamento, un tentativo di rendere proprio l’altrui, direbbe Bachtin, che renda contemporaneamente l’opera tradotta autosufficiente rispetto all’originale. Mi auguro, pertanto, che la versione romena potrà fare capire e fare conoscere quanto espresso non solo e non tanto in un’altra lingua, ma soprattutto in un’altra cultura, così da sviluppare nel lettore il desiderio di avvicinarsi sia al testo originale che alla cultura che da esso traspare.

Con l’auspicio di fare scoprire questo interessante e stimolante scrittore anche al pubblico romeno, la conclusione del nostro invito alla lettura resta nel segno della speranza, “questo grande patrimonio, questa leva dell’anima, tanto preziosa ma esposta ad assalti e ruberie”, come la definisce Papa Francesco, con le parole che chiudono il volume: Conservaci allora nella tua speranza, / rimuovi la nostra stanchezza / e il desiderio che ogni tanto ci coglie, / come i dispersi sulle nevi, / di abbandonarci alla dolcezza del gelo / che lentamente uccide. (Creatore, Signore della tomba vuota – p. 142) .

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