Il Poeta Giuseppe Blefari su “Cieli tamarri. La comunione dei numeri ultimi”

 

Qualche tempo fa, chiacchierando dei suoi scritti, mi ritrovai a dire a Rolando Rizzo: “Vedrai che da qui a breve, anche tu, ti cimenterai con il racconto”.
Mi rispose, con la semplicità ed il candore che lo contraddistinguono “Lo sto già facendo”.
Così, dopo le narrazioni di più ampio respiro dei romanzi, oggi ci troviamo di fronte “Cieli tamarri”, una raccolta di 15 racconti che, diciamolo subito, senza voler minimamente stravolgere nulla dal punto di vista tecnico e narrativo, colpiscono al cuore chi legge e lo trasportano in epoca, ambientazioni, situazioni che abbiamo, troppo in fretta voluto archiviare in nome di una modernità distruttrice di valori e sentimenti.
Sono gli anni in cui la guerra ha lasciato in eredità miseria ed incertezza a chi di miseria ed incertezza non aveva bisogno; dolore e sofferenza a chi nel dolore e nella sofferenza aveva vissuto e che, per questo, con dolore, sofferenza, miseria, incertezza ha impastato la sua storia. Quella passata e quella futura, ma senza mai perdere la speranza, la fede, la dignità.
Rossano ed i paesi del circondario, la gente di questi posti è fatta così: se si taglia, insieme al sangue viene fuori un siero composto di silenzio, pensieri, voglia di riscatto, che ha innaffiato e fatto crescere i semi della cultura, della teologia dell’arte dell’imprenditoria, di cui oggi si può andare giustamente fieri.
Ed è la fierezza, stemperata e declinata in varia forma, che anima i personaggi di Rolando Rizzo, non soltanto quelli di “Cieli tamarri”, ma anche quelli dei suoi romanzi e dunque, i personaggi che, almeno una volta nella vita abbiamo incontrato, con i quali abbiamo avuto a che fare, anche scontrandoci con la ferrea fermezza di caratteri e convinzioni che qualche volta non abbiamo condiviso, ma che, a distanza di tempo, ritroviamo presenti e vive a farci da monito ed insegnamento.
“Cieli tamarri”. La comunione dei numeri ultimi. Chiaramente in contrapposizione con la solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, il sottotitolo è programmatico: non storie alto borghesi né voli in territori a noi lontani, ma pregne di una umanità a volte dolente, a volte schiacciata dalle sovrastrutture che essa stessa ha costruito, a volte sfiduciata, a volte ripiegata su sé stessa quasi non ci fosse via di scampo, ma sempre sorretta dalla fede, non quella soccorritrice di manzoniana memoria, ma quella sulla quale viene edificato, insieme alle quattro pietre che formeranno una catapecchia, il futuro.
Perché di futuro parliamo. Non necessariamente di epoche scintillanti di luci e schiamazzanti di suoni: il futuro è anche un seme piantato che germoglia e cresce e si fa albero. Lo fa in silenzio, in umiltà, ma provate ad estirpare dal terreno un albero ben radicato… Ecco, questo è il futuro di Rolando Rizzo: Un albero che l’intemperia potrà colpire, che il fulmine potrà pure spaccare, ma che dentro di sé possiede l’energia vitale, il respiro, il tremore primordiale della vita.
Ciò che in Giordano è anoressia in Rizzo è mancanza di cibo; quello che lì è bulimia Rolando lo fa diventare fame; le storie di depressione de La solitudine dei numeri primi, in cieli tamarri sono la volontà di eludere orizzonti limitati per allargare il campo visivo oltre la cocciutaggine di cieli sempre troppo soliti, per vedere come cambiano le prospettive e riprendere un respiro alternativo o, crearsi almeno la possibilità di questa alternativa.
Nel racconto “A ciota” è contenuta non solo la spiegazione del sottotitolo, ma anche tutta l’umanità dell’autore, la sua attenzione verso i deboli, il suo smisurato amore verso gli esseri umani ai quali, sempre, concede una possibilità di riscatto anche quando gli eventi sembrano andare in senso opposto. Graziedda è ciota e, dunque, condannata a piangere silenziosamente sotto ad un letto, ad essere derisa, a vivere una vita di buio silenzioso. Per Rolando Rizzo, no. Egli costruisce una delicatissima trama nella quale s’intrecciano sentimento e pedagogia; religiosità e dottrina, tutta tesa a riscattare ed elevare una figura considerata , marginale ed a volte fastidiosa.
Il libro di Rolando Rizzo non vuol essere un libro di storie, ma un libro di storia. Micro storia, certo, storia locale, di una società minima in confronto ai grandi sommovimenti raccontati dalla storiografia ufficiale, che però va raccontata per non disperdere il grande patrimonio di umanità custodito nelle pietre delle nostre vie, delle case delle nostre contrade.
Gli uomini, le donne, i bambini bruciati dalle guerre, divengono ad un certo punto statistica. E poi si contano i danni. Ma quei morti chi erano? E gli scampati, quelli senza identità, che conseguenze hanno avuto e che cosa ne è stato del loro futuro? Si, ma vuoi mettere la conta dei milioni e milioni di lire, adesso Euro, di danni? Per quello si combatte, per i soldi e allora cosa vuoi che contino gli esseri umani?
Rolando Rizzo, attraverso la narrazione di fatti minimi ci offre lo spaccato di quella società che cerca di costruirsi un ordine prima morale e poi, appunto, sociale. Un ordine nel quale entri prepotentemente ed al primo posto l’uomo inteso cristianamente al centro di un universo che espande i suoi confini dalla miseria ottusa di vecchie sovrastrutture mentali, verso il sogno non di grandezze irraggiungibili, bensì di pacificazione e speranza-
Le figure che popolano e si muovono nel libro questo sono: piccoli sogni, piccole speranze. Mi viene in mente il racconto i cugineddi e l’affarunu, nel quale si racconta di come due parenti tentano l’affare della vita con un commercio di noci. Qui, ma anche altrove, la lezione di Giovanni Verga è presente e viva, così come quella di Tommaso Landolfi: la volontà di riscatto frustrata e la trasfigurazione di personaggi in entità misteriose che travalicano il senso di compiutezza in cui siamo abituati a considerarci. Fallisce il commercio di noci dei cugineddi, come fallisce quello di lupini dei Malavoglia l’uno a causa della neve e della donna-lupo, l’altro per il naufragio della Provvidenza.
L’inquietudine delle donne che attendono il rientro dei mariti, però, in Rolando Rizzo è stemperata in un affettuoso ritorno e nella presa di coscienza che, forse, è si utile tentare, ma occorre prima rapportare le nostre forze a quelle conosciute e quelle ignote che, nella nostra semplicità, non sempre riusciamo a controllare-
Per questo, allora, siamo destinati a rimanere sempre vittime? No, perché in altra occasione il riscatto avviene e si sostanzia. E’ la biografia dell’uomo che racconta e che fuggendo da una situazione insostenibile riesce a realizzare il proprio sogno.
Emigra Rolando, emigrano i suoi personaggi; il treno è sempre presente e si fa momento fondamentale nello scorrere del tempo e dello spazio: va comunque, con noi o senza, parte, arriva ritorna. Sta a noi saper cogliere il momento giusto per andare. E per tornare. Più ricchi non sempre e non solo economicamente.
Elementi essenziali nella narrativa di Rolando Rizzo sono il pane ed il vino; essenziali per il sostentamento del corpo, ma che diventano comunione viva, pulsante, vera. Gli uomini di Rolando si comunicano in una bettola, in una baracca o in un pagliaio, non importa dove e quando, ma sono il vino ed il pane che nella messa dei poveri, dei diseredati diventano sangue e carne di Cristo. E la religiosità è vera ed è testimoniata dal modo in cui Rolando descrive i poveri pasti, dalla cura e dall’amore con i quali gli stessi vengono offerti e consumati: non calici d’oro e favolose apparecchiature, ma rozzi bicchieri e tavolacci di legno. Cristo può essere anche lì, anzi deve essere li a scontare tutte le pene di esistenze dolorose, dalle quali, in certi momenti, sembra essere bandita anche la speranza.
Ma lo scatto arriva prepotente quando le ragioni più urgenti coagulano diritto e dovere, morale ed etica per progettare un uomo diverso, nuovo, evoluto e non più schiacciato dalla ricerca sfrenata di quella che io chiamo supersoddisfazione. Quello è il non uomo, colui che non vede, non sente, non parla in quanto teso al suo solo soddisfacimento. Rolando ci propone un uomo diverso, quello che si accorge degli altri, che vive, soffre, ride, uccide, ama, è forte della sua ingenuità (ne è esempio il racconto “U paluriseddu”) e ne fa l’arma con la quale combattere le storture del mondo. E’ l’uomo. Ma alla fine è Cristo.

recensione di Giuseppe Blefari

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